Gabriella Pace
Vangelo di Filippo
Pensare che Licinia Mirabelli rappresenti semplicemente oggetti della quotidianità sarebbe un errore imperdonabile. Certo, è evidente, sono proprio le cose che costituiscono il suo mondo ad andare in scena; eppure non è il “qui e ora” a essere rappresentato, ma l’appena accaduto, che si ricompone nell’occhio di chi guarda reclamando un’agnizione, una risoluzione degli elementi che creano la sciarada.
Indagando sulla sua formazione, scopriamo che essa è stata tradizionale e moderna allo stesso tempo: all’Accademia di Belle Arti di Roma ha avuto inizio la sua ricerca pittorica, alimentata da un’appassionata attenzione per i materiali dell’operare artistico e da legami e fervori per i maestri del passato. Morandi, in particolare, ma anche il Pictor Optimus e Casorati, come testimoniano i numerosi “omaggi” e le continue sfide sul piano formale poste in essere dall’artista.
Ma è dalla sua frequentazione della scuola di cinema di Ermanno Olmi che nasce l’interesse per la rappresentazione di una realtà che non può in ogni caso essere statica, ma che si matura e si consuma attraverso un movimento che mima la macchina da presa e che esclude dalla descrizione ciò che vuole lasciare semplicemente all’intuizione.
Il concetto di “natura morta” – in tedesco Stilleben – non compare in letteratura prima della metà del XVII secolo. Lo si incontra per la prima volta intorno al 1650 in inventari olandesi dove però è ancora in concorrenza con altre definizioni. Il prestito olandese Stilleven originariamente non significava altro che “modello immoto”, “natura immobile”. Un secolo dopo venne creato in Francia il termine di nature morte, considerato da alcuni un neologismo, tanto da essere più spesso sostituito con objets inanimés.
Nel nostro caso, l’astrazione che abbiamo in mente quando parliamo di “natura morta” agisce per contrapposizione; invita, parafrasando il Poeta, all’elencazione di ciò che non si è, di ciò che non si vuole rappresentare.
Sembra lontanissimo il concetto di mimesis, riferito al pittore greco Zeuxis, menzionato da Plinio il Vecchio nella “Storia Naturale” nell’atto di dipingere dei grappoli d’uva in maniera tanto fedele alla realtà da ingannare gli uccelli che vanamente cercavano di beccarne gli acini.
La pittura di Licinia vive e si alimenta nel presente. Ma si tratta di un tempo che ha perso la capacità di vedere il mondo come un insieme perfettamente concatenato.
Infatti l’artista rielabora la frammentazione della realtà nelle sequenze –quasi dei fotogrammi – nei quali sono resi evidenti i limiti del linguaggio figurativo tradizionale, soccorso nella maggior parte dei casi dal cortocircuito della parola, della titolazione che crea connessioni e percorsi che la ragione stessa, e di conseguenza il logos legato alla pura causalità, non aveva preventivato.
Per Licinia la pittura è, con ogni evidenza, una forma di riflessione e di scardinamento dei luoghi comuni (da qui anche la sua predilezione per le allusioni e i paradossi linguistici).
Si soffre per ciò a cui si è accordata un’attenzione estrema. Attenzione, cioè lettura su molteplici piani della realtà intorno a noi, che è verità in forma di figure. E l’artista, che ricompone quelle figure, è ella stessa un mediatore: tra uomo e Dio, tra uomo e uomo, tra l’uomo e le regole segrete della natura.
Infatti, è soltanto attraverso le allusioni celate nel reale che si manifesta il mistero.
Gli oggetti ne sono a dir poco consapevoli, organizzati in una geometria impeccabile, nella ripartizione quasi ossessiva dei bianchi, nella necessità di trascrizione entro lo spazio puro e assoluto del formato quadrato, una delle più evidenti rappresentazioni del Selbst.
Quasi una dichiarazione di poetica, che esplicita un pensiero ricorrente: così io sono, così io esisto nel mondo. Ne è prova flagrante il bellissimo Autoritratto: una brocca di cristallo, dalla trasparenza adamantina e dalle forme sensuali è contrapposta a un vaso dalla forma squadrata e severa, bianco in campo bianco. Un ritmo ineffabile, dalle qualità ossimoriche, pervade tutto il dipinto; ai piedi della brocca, un petalo caduto racconta il paradiso perduto, l’età dell’innocenza che può essere solo evocata, con infinita nostalgia. Accanto al vaso, un uovo infranto richiama la necessaria rottura di una preesistente armonia, in favore di un destino tutto da percorrere.
Il lavoro di Licinia insiste sugli infiniti richiami simbolici dell’opera al bianco; l’albedo durante la quale la sostanza si purifica, sublimandosi. Nel trittico Accetto la sfida il riferimento a Casorati e alla sua affermazione secondo la quale può dirsi vero pittore solo colui che è in grado di dipingere un piatto bianco con un uovo bianco su una tovaglia bianca, è appena un punto di partenza. Quel che si percepisce è la ricerca del silenzio dal quale l’alfabeto pittorico dovrà affiorare, il rigore della solitudine, l’infinita tensione verso un assoluto che è la vera lingua della preghiera.
Negli ultimi lavori il bianco lascia spazio al colore, socchiude la porta affinché la materia, dissolta nell’albedo, si riorganizzi, entrando nella composizione e fissandosi.
Nel quadro Eppure vorrei che mi abbracciassi una camicia maschile e una sottoveste femminile abbandonate su una sedia mimano una coniunctio oppositorum, una ideale riunione di spiriti e di corpi che trascrive gli oggetti nello spazio puro di un’armonia ritrovata, quasi una partitura per l’occhio che voglia intonare un canto malinconico alla pienezza e caducità dell’esistenza.
Viene suggerita, per analogia, la grande aspirazione di Avigdor Arikha, uno degli ascendenti inconsapevoli dell’artista: l’idea che si potesse raggiungere una pittura trascendentale, una pittura simile alla musica. Per riuscirvi, l’artista confida nel potere della visione, nella mano non più comandata dalla mente, ma che domina la mente.
Di nuovo, con Arikha, la verità colta in pochi istanti rende quegli istanti senza tempo.
Un risultato impossibile da raggiungere a partire dal disegno o dalla fotografia, in quanto l’opera dichiarerebbe le tracce della sua fonte, anziché contenere il respiro di vita che nasce direttamente dall’osservazione.
Si tratta di una pittura generata dall’intimo. Pennellata su pennellata. Non per virtuosismo, non inseguendo un concetto originato dall’esterno. La gamma di colori ristretta costantemente ci ricorda il suo scopo primario: portare il pigmento alla sua massima espressione, a rivelare l’invisibile essenza del modello, onorando l’ammonimento di Eraclito: “l’armonia invisibile è superiore a quella visibile”.
maggio 2014
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