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Una solenne immanenza

Ruggero Savinio

Chiamo mito il grembo generativo di immagini e il silenzio che precede il linguaggio. Anche la materialità delle immagini e il loro spessore elementare.
Con la materia e gli elementi Maurizio ha confidenza. L’acqua: vasche, piscine, pozzanghere; la terra su cui posano il piede i suoi camminatori.
Anche l’aria in cui dipinge il volo degli uccelli.
L’aria è pesante, rischiarata da una luce crepuscolare, di tramonto o di alba. L’alba in cui nascono le forme che si accampano nello spazio ridotto alle più elementari coordinate.
Si accampano con una presenza autorevole, addirittura solenne. Potrei chiamarla astanza, recuperando il linguaggio di una critica che aveva ancora occhi per la forma, non si accordava come adesso al metalinguaggio di una recita metaforica.
Le forme di Maurizio sono presenti, non metaforiche. Anche quando una striatura verticale di biacca in primo piano può ricordarci il Monaco in riva al mare di Friedrich, che, secondo Kleist, ci costringe a guardare con occhi senza palpebre, qui non c’è nessuna trascendenza: solo l’immanenza di forme elementari, che trascorrono l’una nell’altra, dall’uno all’altro regno. Dal fango all’acqua, alla foresta di legni trovati e assemblati che affollano il tavolo di lavoro.
E non posso dimenticare il bellissimo Compianto per la morte del nonno, dove le forme, persone, animali, piante sono una corale, che tocca corde profonde.
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