Stefano Catucci
Oggetti
Lo studio di Vincenzo Scolamiero è un ampio rettangolo contornato di resti, oggetti raccolti con la malizia del robivecchi capace di scorgere in ciò che appare morto la possibilità di una vita postuma. Prevalgono i vegetali, gli arbusti rinsecchiti, i rami di acanto, i tralci di vite, gli intrecci di rovi che invitano a connessioni mistiche, quasi fossero stati presi da un trovarobato per sacre rappresentazioni. Ma non mancano piccoli manufatti, serrature incrostate di ruggine, chiavi, pezzi di ferro staccati da vecchi cancelli, un portacandele da chiesa, frammenti di intonaco caduti da qualche muro, pietre intere o spaccate che ricordano crani di uomini o di animali. Disposti in gruppi lungo le pareti, poggiati a terra oppure su tavoli e assi di legno, sono distribuiti secondo ordini basati essenzialmente sui rapporti di somiglianza. Le cose possono essere accostate per provenienza (inorganica, vegetale, animale), per affinità di forma, possono innescare fra loro più complesse relazioni di analogia oppure trovarsi accanto semplicemente per simpatia, perché condividono un’aria di famiglia.
I gruppi e gli ordini possono variare con il tempo, ma l’aspetto d’insieme delle cose e il loro rapporto con la pittura di Scolamiero rimane lo stesso. Quegli oggetti non raccontano storie, nemmeno i più riconoscibili e connotati. Non trasmettono significati, non hanno l’enfasi dei simboli, non sono nature morte da rifigurare in pittura e non formano nemmeno un allestimento scenografico. Dai luoghi nei quali sono collocati trasmigrano nei dipinti di Scolamiero non attraverso il percorso di una rappresentazione, ma simulando un contatto. Sono dipinti in modo talmente minuzioso, e con un tale virtuosismo del segno a mano libera, da apparirci quasi come l’impronta della cosa stessa sulla tela. Il pennello che ha steso le velature sembra avere incontrato gli oggetti, nel suo passaggio, come solidi posati sulla superficie del dipinto, profili scabri, ostacoli che si sono frapposti al gesto del pittore e che la mano ha seguito senza forzare, adattandosi alle irregolarità. L’impronta, ha scritto Georges Didi-Hubermann, è un’immagine dialettica che ci parla sia del contatto, sia della perdita di contatto, costringendoci a ripensare i modelli di temporalità con i quali giudichiamo il nostro rapporto con la provenienza e con l’origine. Nei quadri di Scolamiero l’impronta delle cose è diffusa ovunque, ma il fatto che sia soltanto simulata conferisce all’esperienza del contatto in primo luogo il senso della lontananza e della perdita. Il realismo dell’immagine-impronta si rivela così una strategia elusiva: una questione che lega la pittura non alla presenza, ma al tempo. Le figure non rinviano ai loro referenti, agli oggetti che pure sono così riconoscibili, ma alla visibilità stessa delle cose, al loro emergere e scomparire nella distanza, velatura dopo velatura, al loro mostrarsi tanto più sfuggenti e inafferrabili quanto più vengono definiti e paiono a portata di mano. In gioco, nel ritmo di questo movimento, non c’è la contrapposizione scolastica tra la figura e l’astrazione, o tra l’informale e la forma, ma una condizione di senso della pittura e, più in generale, di ogni nostra produzione di immagini.
Vegetali
Che i motivi maggiormente ricorrenti nell’opera di Vincenzo Scolamiero provengano dal mondo delle forme vegetali è un indizio del fatto che proprio le condizioni della visibilità, e non la rilevanza di singoli oggetti, siano al centro della sua ricerca. Walter Benjamin rimase colpito, nel 1928, dagli ingrandimenti fotografici di fiori, piante e aggregati botanici pubblicati da Karl Bloßfeldt nel libro Urformen der Kunst. L’universo di analogie aperto da quelle immagini ci avrebbe costretto a ridefinire l’intero inventario delle nostre forme percettive, notava Benjamin, facilitando l’accostamento fra arte e tecnologia, per esempio fra la visione al microscopio e l’astrattismo di pittori come Klee o Kandinskij, ma anche conferendo nuova dignità a un genere marginale, l’ornamentazione, il cui lavoro ricerca l’anima delle forme, cioè qualcosa di molto diverso rispetto agli obiettivi della pittura astratta.
Queste osservazioni si avvicinano molto all’esperienza che ci viene trasmessa dalla pittura di Scolamiero, nella quale gigli, acanto e oggetti di risulta si rivelano potenziali portatori di anima proprio perché sono potenziali portatori di forma. La loro materialità ossificata, fossile, diventa allora il limite instabile che fa scivolare la storia nell’assenza di storia, ovvero nel tragico, e la figura nella sua sparizione, ovvero nella lontananza in cui si dissolve. Sono queste le preoccupazioni che dividono in modo netto la strada di Scolamiero da quella della pittura informale e che lo spingono a collocarsi in un’altra linea della modernità, più vicina a noi ma anche più minoritaria: quella per cui la ricerca sulle potenzialità del segno non si esaurisce in una questione di linguaggio ma prende il senso di un esercizio spirituale, nel senso che Pierre Hadot ci ha insegnato a riconoscere nella filosofia antica, certo, ma anche in alcuni gesti forti del pensiero contemporaneo.
Per molti aspetti il gesto del dipingere ha, nel lavoro di Scolamiero, proprio il valore dell’esercizio spirituale e un’importanza, perciò, che va oltre i singoli quadri e i singoli oggetti raffigurati. La perfezione e l’economia del movimento danno ritmo alla pennellata o sorreggono la dedizione amanuense, ipnotica delle carte. Il disegno sembra spesso derivare dal gesto come una sua proiezione diretta, eppure l’attenzione concentrata sul gesto dev’essere indagata non in base a una sua autonomia, etica o estetica, ma in relazione ai mezzi con i quali Scolamiero indaga un’altra matrice della pittura: il senso dello spazio. Il colore, anche quando è dominato dagli sfondi più scuri, tende ad ampliare la superficie della raffigurazione dando respiro ai vuoti, alle distanze tra le linee e tra le figure, alla rarefazione delle atmosfere nelle quali gli oggetti sembrano fluttuare come se si muovessero in una pittura a tre dimensioni. A volte sono le sole velature a creare l’effetto di una distanza e di una profondità dentro il quadro. In altri casi sono interruzioni della pennellata che risultano, a lavoro finito, come pieghe di un tessuto leggerissimo, oppure sono piccoli strappi in trompe l’œil a suggerire che, se solo si staccassero le figure dalla tela o la si perforasse per entrarvi, si potrebbero scoprire altre modalità del visibile.
Calligrafie
Anche l’aspetto calligrafico del lavoro di Scolamiero rientra, contro ogni aspettativa, nella problematizzazione di uno spazio a tre dimensioni. L’accostamento con la pittura orientale, alla quale i lavori di Scolamiero più inclini al calligrafismo fanno pensare immediatamente, giustifica l’apparente paradosso di una pittura che ricorre alla sua componente più astratta per restituire il senso del dinamismo spaziale. Sergej M. Ejzenstein ci ha lasciato su questo indicazioni preziose: le variazioni della calligrafia, il suo ingrossamento, il suo peso, l’ispessimento del tratto pittorico, equivalgono alla «messa in scena di una volontà di scrivere tridimensionalmente», di andare «oltre la superficie del foglio di carta» e oltre la resistenza che esso oppone, costringendo la mano a scorrervi sopra e a non penetrarvi perpendicolarmente. La più comune scrittura a penna, osserva Ejzenstein, è già deformata dall’impulso che vorrebbe spingerci a passare attraverso la carta. In pittura, quell’impulso diventa il segnale di una corrente emotiva che alcune tradizioni, come quella cinese, hanno attentamente codificato e che in Occidente, invece, sembra essere del tutto rimossa, come se allo stile calligrafico non corrispondesse emotività alcuna. In Cina, l’attenzione data a questo elemento è tale da aver giustificato una precisa tipologia di segni. Il trattatista Chiang Yee, all’inizio del Novecento, distingueva due procedimenti della pennellata, uno «delicato» e l’altro «vigoroso», ma poi articolava le configurazioni delle pennellate ricorrendo alla fantasia della nomenclatura tradizionale: la pennellata detta “corda di ferro”, la “foglia di salice”, la “foglia di orchidea”, la “foglia da ardere secca”, la “testa di chiodo”, la “coda di topo” e così via.
È possibile che l’artista-calligrafo abbia tanti nomi per i suoi tratti e per la forma delle pennellate quanti si dice ne abbiano gli eschimesi per la neve o ne avessero i salentini per la terra fino a qualche decennio fa, come ha raccontato il cantore Uccio Aloisi. È certo invece che riconoscere nel ductus della pennellata e nel tratto calligrafico le cifre emotive più scoperte della pittura di Scolamiero, a prima vista così protetta e disciplinata, sia un modo di cogliere il punto di saldatura fra le diverse istanze di un lavoro che rifluisce sempre verso le stesse cose e fa coincidere, lungo il suo percorso, l’interrogazione sulle modalità del visibile con l’intuizione di una vita delle cose che costeggia la nostra, sia pure con ritmi temporali diversi, e che ci guida verso un’altra immagine del mondo.
2. Il demonico e l’attuale: Maurizio Pierfranceschi
Archeologia
I lavori più recenti di Maurizio Pierfranceschi sono realizzati su materiali duri, resistenti. Supporti di origine povera come i cartoncini grigi usati dai corniciai per chiudere il retro dell’intelaiatura di un quadro. Oppure più raffinati come i fogli di carta legno che si usavano nel modellismo, per costruire navi e aerei, ma che oggi vengono impiegati anche nel bricolage, per costruire oggetti per la casa. Lo spessore dei fogli, che varia dai 3 ai 5 millimetri, è la striscia di terra che Pierfranceschi affronta scavando con gli strumenti dell’intagliatore, bulino e lama, affiancati a quelli tradizionali della pittura. Le due dimensioni si aprono così a una verticalità plastica, quasi che i confini del quadro individuassero non una superficie da dipingere, ma il perimetro di un cantiere archeologico. Il disegno da cui muove il lavoro somiglia al tracciato di una mappa, è una sinopia che indica la posizione ipotetica dei reperti da riportare alla luce. L’obiettivo non è arrivare a un’origine, a un presunto grado zero del foglio e della pittura, magari nascosto nell’ultimo millimetro utile del cartoncino. Si tratta semmai di mostrare la coesistenza dei diversi livelli, il fatto che un’epoca lontana e sepolta sia ancora viva nei nostri contatti con il mondo, a patto di saperla riconoscere e riesumare. Carl Gustav Jung paragonò una volta la struttura dell’anima allo spaccato di una casa antica: «il piano superiore è stato costruito nel XIX secolo, il pianterreno è del XVI e un esame più minuzioso della costruzione mostra che essa è stata innalzata su una torre del II secolo, mentre nella cantina scopriamo fondazioni romane e sotto la cantina una grotta colmata, sul cui suolo si scoprono utensili di selce nello strato superiore e negli stati più profondi resti di fauna glaciale». Potrebbe essere una buona descrizione anche per l’opera di Maurizio Pierfranceschi e forse una buona chiave per comprendere il rapporto che lega, nel suo lavoro, l’informale e il figurativo, l’interesse per il paesaggio naturale e per quello della commedia umana.
Acqua
I gesti archeologici e genealogici dello scavo sono simmetrici a un altro procedimento, quello dell’accumulo. Se si considera la serie dei quadri di Pierfranceschi realizzati con colori molto liquidi, e che compongono porzioni di paesaggio acquatico, si può percepire anche nei processi dell’accumulazione una lenta sedimentazione di strati. I fogli sono di carta più sottile e vengono stesi a terra, sul pavimento, dove un primo disegno individua i percorsi e le griglie che guideranno i gesti di una pittura plastica. I primi colori a essere stesi sono densi, pastosi. Asciugandosi, deformano la carta e introducono sulla superficie liscia dei rilievi, così che la bidimensionalità del foglio prende la forma di un’orografia più tormentata. Colori molto più liquidi vengono allora versati lentamente sul foglio ancora steso a terra: il pittore controlla il dirigersi dei rivoli di colore lungo le asperità del primo strato e in momenti successivi ne argina le fluttuazioni. In alcune zone della carta ormai in rilievo il liquido scivola via, in altre ristagna come in una pozzanghera. Pierfranceschi compone queste distribuzioni, alterna primi piani e campi lunghi senza allentare la cura nei confronti della configurazione che via via si sviluppa. Il caso non è osteggiato, ma non è neppure delegato a produrre forma al posto della lotta ingaggiata dall’artista con le sue materie. Non c’è dripping, ma una composizione dell’accumulo che richiede tempo di esecuzione e di attesa. I quadri acquatici di Pierfranceschi hanno infatti una crescita lenta, organica, che segue i tempi di essiccamento del colore versato. Le opere realizzate con questo procedimento portano nella loro microstoria l’intera filogenesi dell’immagine, facendoci percorrere in senso inverso il cammino compiuto negli scavi. Con la realtà hanno un rapporto in scala 1:1 perché non raffigurano porzioni di paesaggio, ma lo sono esse stesse. Sono terra, natura, orizzonti che contengono in sé il proprio rinvio, pur non essendo autoreferenziali.
Paesaggio
Paesaggi e nature trovano posto nell’opera di Pierfranceschi anche in pratiche meno sperimentali, per esempio nella pittura a olio, ma rispondono pur sempre a una logica di accumulo che ne fa l’altro versante della sua archeologia, il lato ctonio della sua ricerca di profondità. Formandosi per strati sovrapposti, quei paesaggi e quelle nature sono idealmente percorribili in senso inverso, possono essere sfogliate strato per strato fino a trovare, nei livelli più remoti, i neri e i bianchi di figure archetipiche sepolte. La complementarità di questo duplice percorso coincide con il dinamismo dei quadri di Pierfranceschi. Sono la manifestazione di un processo che non si lascia togliere dialetticamente nella forma, dimenticare quando si guarda l’opera. Ne deriva un senso di tensione che non si lascia identificare con un dettaglio di ciò che si vede, ma percorre tutta la superficie del quadro come una forza non esplicitabile, segreta.
Sarebbe difficile comprendere questo movimento senza collocarlo sotto l’egida del mito. Rilke ha osservato come la natura e i paesaggi, in pittura, siano «qualcosa di lontano e di estraneo, di remoto e di astratto» che tuttavia converge verso di noi inaspettatamente, cogliendoci in ciò che abbiamo di più interno e diventando così «nei confronti del nostro destino un paragone liberatore». La pittura antica, proseguiva Rilke, attribuiva probabilmente alla figura umana quel chiasma di vicinanza e lontananza che i moderni hanno ravvisato nel paesaggio: ambienti, case e strade venivano soltanto accennate nell’antichità mentre gli uomini, per lo più nudi, erano «come alberi che rechino frutta e ghirlande di frutta, come siepi in fiore, come primavere in cui cantino gli uccelli». L’epifania del non-umano nell’uomo e, per converso, l’apparizione dell’umano nella natura sono gli aspetti tipici del mito che si ritrovano anche nella pittura di Pierfranceschi. Le dimensioni del mistero e del demonico sono ciò da cui muovono tanto i suoi scavi archeologici quanto i suoi cumuli di materia, movimenti a due direzioni di una pittura fisica nella quale acque, alberi e pietre parlano dell’umano mentre gli uomini, le loro ombre e i loro riflessi in antichi feticci parlano invece della natura. L’animale, così come compare nei quadri più recenti, è il tramite fra quei due estremi, vivente privo di invididualità che traccia la soglia di indistinzione fra l’essere della natura e quello dell’uomo.
Fame
Valorizzare il rapporto della pittura di Pierfranceschi con il mito implica che venga ridotto quello con la psicologia. Non hanno punti in comune con il suo mondo visivo né l’immagine dell’artista che proietta i suoi sentimenti nell’opera, né quella dei vissuti che nell’opera si rispecchiano trovandovi il surrogato di un’atmosfera in cui esistere. Il travaso dei vissuti e dei sentimenti nella pittura segue, nelle sue opere, un’altra via, una declinazione archetipica dell’attualità colta in due dei suoi aspetti fondamentali, quelli dell’accumulazione e del consumo emancipati però dal feticismo, ovvero dal loro tipico tratto moderno e postmoderno.
C’è un’immagine antropologica immune dal feticismo, e i cui confini sfumano nel mito, che precisa il senso di questo rapporto fra opera e mondo della vita. È l’immagine concreta, rituale o simbolica dell’ingestione, della voracità, dell’assimilazione progressiva di oggetti e figure plasmate nell’atto che le divora e le rinnova. Ancora Ejzenstein ha parlato del cannibalismo come di un antico progenitore del montaggio nell’arte, un antecedente tribale, primordiale, posto all’incrocio fra la naturalità e la socialità dell’operare umano: il corpo del capo «solennemente ucciso» veniva mangiato affinché «l’unità del suo corpo diventasse l’unità della tribù», mentre nell’arte il corpo visivo degli oggetti percepiti viene smembrato e ricomposto per dare vita a una nuova unità estetica. Il principio unificante che agisce nell’opera di Pierfranceschi è come segnato da una fame originaria, mitologica, che si nutre indistintamente di materiali, di figure, di sentimenti e di vita vissuta per estrarne e metabolizzarne le potenzialità formatrici. Cartone, carta, carta legno, tela, colore fluido, colore denso, essiccamenti, rilievi, ma anche il caso che si intromette nel percorso formativo e che occorre, volta per volta, assecondare o domare, sono resi plastici da un’energia che li trasforma in alimento senza innalzarli al rango metafisico del feticcio. Così l’atteggiamento onnivoro nei confronti delle tecniche, degli stili e delle tradizioni non diventa eclettismo e la varietà di lavori che Pierfranceschi segue in parallelo, informali e figurativi, non è il frutto di una strategia pianificata ma del bisogno fisico di ingaggiare nuove lotte con la riottosità della materia, come se in ogni quadro ci fosse sempre in gioco qualcosa che va al di là del quadro, verso l’esistenza.
Certo per farsi carico di questa non occorre, oggi, essere soltanto cannibali, ma c’è bisogno invece di una dose importante di ironia che corregga, argini le inflessioni della soggettività mettendola di continuo di fronte alla durezza delle cose, che possono essere divorate ma non ignorate. Pierfranceschi sa anche molto giocare con l’arte e proprio tramite il gioco, un altro archetipo, riapre un contatto fra la pratica artistica e quella forza utopica, redentrice dell’opera a cui gli artisti di oggi, da tempo, sembrano avere invece rinunciato.
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