Tiziana d’Acchille
Le ultime tendenze nelle arti visive sembrano aver oltrepassato una linea invisibile ma percepita da chiunque si avvicini al complesso sistema dell’arte contemporanea: quella della cosiddetta ‘fattibilità’.
Con buona pace delle dispute critiche, ormai ridotte a scaramucce da talk show, e con il sostanziale silenzio delle masse, impegnate a rincorrere forme di gratificazione estetica ben lontane dal mondo delle arti visive, le opere d’arte contemporanea vivono ormai dentro un universo parallelo vicino alle antiche poetiche del terribile e del meraviglioso, poetiche che negli ultimi decenni hanno monopolizzato il campo tanto da far assumere a ogni progetto artistico che si rispetti dimensioni davvero macroscopiche, direttamente proporzionali all’impegno dei nuovi mecenati, oggi meglio noti col termine piuttosto diffuso di sponsor. Molti artisti contemporanei sono diventati progettisti: lavorano in team con architetti, informatici, esperti di cibernetica e ingegneri. Le opere d’arte si sono trasformate in sontuosi e monumentali progetti mirati per lo più a potenziare ed espandere la possibilità percettiva dello spettatore: costruire una sorta di astronave madreperlacea dotata di camera ‘sensoriale’, realizzata con copioso dispendio di energie e denari, non costituisce più ostacolo all’immaginazione e alla fantasia dell’artista. I paesaggi, come pure il tempo atmosferico e le sue varianti, non saranno più riprodotti, dipinti, fotografati o filmati, ma creati ex novo attraverso l’ausilio di un livello avanzato di tecnologia. Costruire una torre di piombo, o un intero edificio di cera non rappresenterà più un impedimento pur di salvaguardare i desiderata dell’ego ipertrofico dell’artista-progettista. Un complesso apparato biomeccanico per la realizzazione di una sostanza del tutto simile agli escrementi umani è stata di recente l’opera-simbolo dell’apertura di stagione di un importante museo italiano d’arte contemporanea. E quindi, da un panorama mondiale caratterizzato alla fine del millennio da un’effettiva, globale e comunemente accettata coesistenza di stili e tendenze, abbandonate le querelle più o meno accese tra avanguardisti e conservatori, si è passati negli ultimi anni a un livello superiore, quello della realizzazione dell’impossibile, quello che Lewis Carroll avrebbe licenziato con una semplice frase: We are all mad here!
Una spinta verso la logica monumentale ha contagiato questi progetti che, non potendo celebrare direttamente la grandeur del committente, ne celebrano la potenza economica amplificando ed espandendo i propri confini oltre ogni limite possibile. Non sempre, però, gli apparati mastodontici e gli effetti speciali sono sinonimi di qualità certa e di durabilità: nella nostra ormai conclamata assuefazione al sensazionale, non si potrà andare che verso l’indifferenza, questa sì davvero mortifera, nei confronti dell’opera d’arte, che avrà potenza stupefacente ma vita breve, per dirla con le parole di Goethe: “Un arcobaleno che dura un quarto d’ora non lo si guarda più”.
Questa premessa, necessaria per inquadrare alcune criticità del contesto contemporaneo, spiega il motivo della scelta del termine “Senza specie” per descrivere la mostra di Maurizio Pierfranceschi e Vincenzo Scolamiero. “Senza specie” è una locuzione desunta dal lessico botanico che nella sua accezione scientifica indica un elemento non classificabile, non ascrivibile ad alcuna specie in particolare.
L’universo pittorico di Vincenzo Scolamiero e Maurizio Pierfranceschi ha quasi di getto ispirato questo titolo per la mostra che li vede finalmente unici protagonisti, dopo un ventennio trascorso lavorando prima insieme nel grande – e ormai celebre – studio di via Benaco, poi in una serie di importanti mostre personali, in mostre collettive che hanno ambiziosamente occupato luoghi abbandonati ma fondamentali per il tessuto culturale della città, e infine, nella meditata solitudine dei propri nuovi studi. Pierfranceschi e Scolamiero sono amici di lunga data. Amici con un legame importante che si è inevitabilmente riverberato anche sulle loro opere, nate da un continuo confronto dell’uno, Scolamiero, più lirico e perfettamente contenuto, con l’altro, Pierfranceschi, più emotivo e dirompente.
Due artisti con caratteri e metodi operativi diversi, eppure impegnati in un dialogo sempre attivo e lontano dalle logiche del sodalizio vero e proprio.
Scolamiero e Pierfranceschi potrebbero essere a un primo sguardo definiti due pittori astratti, ma un secondo e più analitico sguardo evidenzierebbe certamente la difficoltà di una tale definizione ad attagliarsi alle opere, non fosse per il solo fatto che oggi in ambedue i casi ci troviamo di fronte alla presenza di numerosi riferimenti formali figurativi.
Senza specie, quindi. Una sostanziale impossibilità a ‘catalogare’ opere pur contemporanee all’interno di un sistema definito, codificato, di una sola corrente artistica. Per un curioso gioco di trasferimento della locuzione al mondo e al sistema dell’arte, peraltro adottato solo nel caso di questa mostra, i due artisti condividono oltre che l’amicizia anche la non classificabilità in senso stretto.
Probabilmente è l’assenza della necessità di essere legati al tempo delle mode e la determinazione a perseguire obiettivi propri e non necessariamente in linea con le sperimentazioni contemporanee, dalla pittura d’immagine di stampo neo pop, alle suggestioni degli ultimi linguaggi tecnologici, a rendere le opere di Pierfranceschi e Scolamiero già in qualche modo classiche. Si tratta di due artisti che non hanno impresso colpi o virate drammatiche ai loro lavori: il loro è un percorso di ricerca in costante e lenta mutazione, dove ogni passaggio è scandito da serie di opere che preannunciano ogni cambiamento importante. Per questo sono detentori di uno stile assoluto e personale, già inconfondibile e riconoscibile a un primo sguardo.
Le opere dell’ultima produzione di Pierfranceschi emergono da un percorso lungo e meditato, fatto di confronti costanti dell’artista con la ricerca di un significato primigenio in pittura, ma anche in scultura. La scultura è la passione originaria di Maurizio Pierfranceschi, e la sua anima di scultore affiora dai disegni, dalle carte ritagliate di questa mostra e, ovviamente, dalle sculture in legno di quercia. Nelle prime opere di Pierfranceschi era presente un anelito verso l’essenza della materia pittorica. Questa ricerca così acuta e profonda lo ha portato alla produzione di opere giocate su ampie campiture monocromatiche, poi progressivamente virate sulla ricerca d’una espressione formale che contemplasse un parziale reinserimento di elementi figurativi.
Appartiene a una fase successiva l’ingresso all’interno di composizioni più serrate e ritagliate (letteralmente, molte di queste ottengono un effetto di profondità giocando sui rilievi ottenuti da più e più ritagli sulla superficie cartacea) di sagome brune, sorta di umani primigenii.
I personaggi in ombra, scuri, che abitano le ultime opere di Pierfranceschi sono creature di una nuova alba dell’umanità, emerse da un sostrato magmatico che sembra ricalcare la materia dei nostri sogni, e che riemerge in queste forme sospese a metà tra il vegetale e l’animale, anch’esse, appunto ‘senza specie’, appoggiate sul crinale di due diversi regni della natura.
È curioso come la nascita di questi personaggi simbolici sulle tele di Maurizio Pierfranceschi coincida con un altro noto leitmotiv della pittura d’immagine contemporanea: quello della descrizione degli androidi futuribili e senza sesso, anche in questo caso figure dell’immaginario, a metà tra il fantascientifico e l’onirico. Nel caso di Pierfranceschi, però, la differenza di significato è sostanziale: gli umanoidi rappresentano gli esiti di una ricerca formale, che si colloca alla fine di un lungo cammino di astrazione, e pertanto possono essere definiti come un riapparire di forme umane, ancorché essenziali, sulle campiture fino a quel momento estese ai limiti di un’astrazione minimale, nutrita della sola matericità dell’opera.
Pierfranceschi si riaccosta quindi non alla figurazione nel senso tradizionale e soprattutto contemporaneo del termine, ma alla ricerca di una consonanza tra le forme della natura, vegetali e umane, che rappresentano comunque il punto di partenza dell’astrazione formale.
Quella descritta nelle sue ultime opere è un’umanità ormai non classificabile, anch’essa ‘senza specie’, uscita dalle logiche della bellezza artificiale per ritornare a costruire una simbiosi ‘sulla’ pianta, con una natura ridivenuta dimora e rifugio. Pierfranceschi ribalta quindi il concetto di umanità futuribile riportandolo ai suoi primordi e immaginando un popolo nuovo, oscuro, emerso dalle umide e feconde profondità forestali. Accompagna questo nuovo ciclo di opere, molte delle quali su carta a strati, poi ritagliata e sagomata, un panorama cromatico di inaspettata freschezza e luminosità, esaltato dalla trasparenza dei pigmenti ad acqua e dalle mescolanze realizzate con nitore rigoroso.
Il mondo delle forme naturali è altrettanto importante e fecondo di suggerimenti visivi per Vincenzo Scolamiero, arrivato a un punto di sintesi cruciale nel suo percorso visivo.
Protagoniste di quest’ultima mostra sono le grandi tele rettangolari giocate sui toni del blu: “Balenanti arborescenze”, “Del vuoto di un azzurro”, “Col verde del cielo” e “Dove nell’aria fluttuano le foglie”. Stavolta la base è di un blu cobalto-petrolio, più intenso ed evocativo di fondali marini, nonostante i titoli delle opere esprimano un riferimento aperto all’aria. Scolamiero ha sempre trattato la materia impalpabile degli elementi come l’aria, la terra, l’acqua e il fuoco riuscendo quasi miracolosamente a renderne l’esistenza e la tangibilità sulle sue carte, appositamente trattate dai pigmenti diluiti e impregnati d’acqua, dagli inchiostri violentemente stinti dagli acidi, da una pennellata aerea che spande sulla carta e sulla tela le sempre variabili mescolanze con la leggerezza di un colpo di vento.
Le opere in mostra, nel momento d’incontro-confronto con l’amico Pierfranceschi impongono un’ulteriore riflessione. Come in una sorta di osmosi i due artisti sembrano aver assorbito l’uno dall’altro alcune peculiarità: nelle opere di Scolamiero emerge una maggiore inclinazione alla rappresentazione degli elementi agitati nel caos, mentre nei quadri di Pierfranceschi è apparso un senso di compostezza e di nitore delle partiture.
La vera novità nella produzione ultima di Scolamiero è però, come si è già detto, la nota cromatica di azzurro tra il petrolio, il cobalto e l’oltremare, che precipita la percezione della materia rappresentata dalle brume aeree verso gli abissi dei fondali marini. Si tratta, come sempre, di suggestioni a metà tra il reale e l’immaginario, scorci di un mondo fantastico dove a tratti rilucono elementi affioranti, quasi illuminati da una fonte superiore, ad evocare ancora una volta forme viventi “senza specie”.
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