Architetture silenziose
Tiziana D’Acchille
Quando ho visto per la prima volta le grandi incisioni di Peter De Koninck, segnalatemi da una cara e brava amica artista, ho subito pensato che si trattasse di qualcosa di speciale.
La sua provenienza dalle antiche e gloriose aree fiamminghe, innanzitutto, che lo imparentava immediatamente ai miei occhi con uno dei maggiori incisori dell’arte occidentale, Rembrandt van Rijn, mi ha evocato analogie e parentele artistiche ardite e, contemporaneamente, mi ha colpito un aspetto esattamente all’opposto, ossia il fascino di una monumentalità così diversa dalle piccole lastre del grande incisore nordeuropeo.
Questa appartenenza a un prezioso filone dell’arte moderna mi ha dunque suscitato una certa curiosità, vista anche la disinvoltura di questo artista nel dialogare con i grandi maestri dell’incisione e la sua apparente noncuranza rispetto alla necessità dell’utilizzo di linguaggi meno legati alle tecniche tradizionali.
Innanzitutto il ‘montaggio’ di più stampe a comporre un insieme di grandi dimensioni, rende queste opere estremamente suggestive e allusive di un mondo altro rispetto al mondo reale, allusione confortata dalla scelta del soggetto, “Tracce di architettura”, che in questo caso specifico predilige un aspetto del reale in cui l’umanità è pressoché assente, o appena suggerita. Una realtà cristallizzata in una dimensione senza tempo, dove l’architettura è testimone unico di un passaggio umano apparentemente lontano e ormai assente, tema questo che annovera illustri predecessori che de Koninck deve aver introiettato con evidente efficacia.
De Koninck, dunque, si cimenta con la grandezza e la monumentalità dell’architettura come solo Piranesi aveva finora fatto nel celeberrimo ciclo delle “carceri”.
L’incombenza, a tratti anche lugubre, dei prospetti architettonici, degli interni bianco e nero di cattedrali deserte, non ci lascia indifferenti: ci proietta in una dimensione di muto dialogo con l’ambiente costruito, lasciato solo con la sua fredda e inquietante presenza. De Koninck è inoltre riuscito, probabilmente senza predeterminazione, nell’impresa di una sintesi ardita tra moderno e contemporaneo: gli interni della cattedrale di San Galgano, riprodotti con una tecnica tra le più adatte alla rappresentazione del sogno, del soprannaturale, quella del bianco e nero dell’incisione, ci ricordano stranamente le spoglie di una contemporanea fabbrica abbandonata.
L’interesse di questo peculiare artista per l’architettura non si limita alle forme geometrizzanti del razionalismo di piccoli o grandi edifici, dall’Ara Pacis alle palazzine della periferia belga, ma anche verso tutto ciò che assume un aspetto magniloquente, ai grandi volumi vuoti di Milano o Torino, come pure al singolare contrasto tra la freddezza e la staticità dell’architettura anni venti scaldata da un movimento incerto dell’ombra del fogliame.
Le sue tracce di architettura, dunque, sono sia le singole linee che appaiono nella loro significante solitudine estrapolate dalla visione d’insieme, sia le grandi opere edificate e rappresentate totalmente disabitate, come il grande atrio del museo o la galleria milanese.
De Koninck ci offre una lettura davvero contemporanea del nostro rapporto con l’edificio, dello sgomento che la condizione umana ha sempre avuto nel relazionarsi con dimensioni non immediatamente rapportabili alle proprie. Non è un caso che tutta la storia dell’architettura sia segnata dalla spasmodica ricerca di una misura, di un canone, di una regola che richiami i rapporti proporzionali del corpo umano, quasi a cercare una forma di conforto e riconoscibilità anche in quello che ci appare più distante e irraggiungibile.
La sua provenienza dalle antiche e gloriose aree fiamminghe, innanzitutto, che lo imparentava immediatamente ai miei occhi con uno dei maggiori incisori dell’arte occidentale, Rembrandt van Rijn, mi ha evocato analogie e parentele artistiche ardite e, contemporaneamente, mi ha colpito un aspetto esattamente all’opposto, ossia il fascino di una monumentalità così diversa dalle piccole lastre del grande incisore nordeuropeo.
Questa appartenenza a un prezioso filone dell’arte moderna mi ha dunque suscitato una certa curiosità, vista anche la disinvoltura di questo artista nel dialogare con i grandi maestri dell’incisione e la sua apparente noncuranza rispetto alla necessità dell’utilizzo di linguaggi meno legati alle tecniche tradizionali.
Innanzitutto il ‘montaggio’ di più stampe a comporre un insieme di grandi dimensioni, rende queste opere estremamente suggestive e allusive di un mondo altro rispetto al mondo reale, allusione confortata dalla scelta del soggetto, “Tracce di architettura”, che in questo caso specifico predilige un aspetto del reale in cui l’umanità è pressoché assente, o appena suggerita. Una realtà cristallizzata in una dimensione senza tempo, dove l’architettura è testimone unico di un passaggio umano apparentemente lontano e ormai assente, tema questo che annovera illustri predecessori che de Koninck deve aver introiettato con evidente efficacia.
De Koninck, dunque, si cimenta con la grandezza e la monumentalità dell’architettura come solo Piranesi aveva finora fatto nel celeberrimo ciclo delle “carceri”.
L’incombenza, a tratti anche lugubre, dei prospetti architettonici, degli interni bianco e nero di cattedrali deserte, non ci lascia indifferenti: ci proietta in una dimensione di muto dialogo con l’ambiente costruito, lasciato solo con la sua fredda e inquietante presenza. De Koninck è inoltre riuscito, probabilmente senza predeterminazione, nell’impresa di una sintesi ardita tra moderno e contemporaneo: gli interni della cattedrale di San Galgano, riprodotti con una tecnica tra le più adatte alla rappresentazione del sogno, del soprannaturale, quella del bianco e nero dell’incisione, ci ricordano stranamente le spoglie di una contemporanea fabbrica abbandonata.
L’interesse di questo peculiare artista per l’architettura non si limita alle forme geometrizzanti del razionalismo di piccoli o grandi edifici, dall’Ara Pacis alle palazzine della periferia belga, ma anche verso tutto ciò che assume un aspetto magniloquente, ai grandi volumi vuoti di Milano o Torino, come pure al singolare contrasto tra la freddezza e la staticità dell’architettura anni venti scaldata da un movimento incerto dell’ombra del fogliame.
Le sue tracce di architettura, dunque, sono sia le singole linee che appaiono nella loro significante solitudine estrapolate dalla visione d’insieme, sia le grandi opere edificate e rappresentate totalmente disabitate, come il grande atrio del museo o la galleria milanese.
De Koninck ci offre una lettura davvero contemporanea del nostro rapporto con l’edificio, dello sgomento che la condizione umana ha sempre avuto nel relazionarsi con dimensioni non immediatamente rapportabili alle proprie. Non è un caso che tutta la storia dell’architettura sia segnata dalla spasmodica ricerca di una misura, di un canone, di una regola che richiami i rapporti proporzionali del corpo umano, quasi a cercare una forma di conforto e riconoscibilità anche in quello che ci appare più distante e irraggiungibile.
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